La bomba a scuola
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- Pubblicato Venerdì, 19 Giugno 2020 14:43
- Scritto da Pino Marchini
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LA BOMBA A SCUOLA
Il primo ottobre 1945 fu il mio primo giorno di scuola.
Si aprono le scuole. Quali scuole? Nel nostro paese esistevano solo le scuole elementari nel centro storico. In campagna, come si definivano allora le frazioni della pianura, l’amministrazione dell’epoca aveva provveduto ad affittare alcuni locali di case private in varie località ed attrezzarli provvisoriamente ad usum scholae.
Per i ragazzi di prima elementare che abitavano nel tratto della via Aurelia dal Ponte Bettigna a San Lazzaro Vecchio fu affittato un ex officina-garage, nelle vicinanze della fornace di laterizi, non lontano dalla casa in cui abitavo.
La classe era mista, maschi e femmine, formata da una trentina di ragazzi dai sei agli otto anni perché alcuni non avevano frequentato la scuola durante il periodo bellico. Il locale, piuttosto angusto, aveva diverse problematicità, una grande porta d’ingresso da dove passava anche il minimo refolo di vento, una finestrella dalla quale entrava poca luce ed era privo di servizi igienici.
Ma a tutto si rimedia; in caso di necessità corporali i maschi potevano utilizzare il “capannello” un casotto di legno, attiguo all’abitazione, costituito da una botte sfondata e una tavola d’appoggio, che sostituivano la classica latrina alla turca. Purtroppo questa inadeguata struttura fu la causa di un paio di incresciosi inconvenienti simili a quelli raccontati dal Boccaccio nel Decameron.
Le femmine e la maestra, invece, potevano utilizzare il gabinetto della famiglia che aveva affittato il locale ad uso di aula. La solita discriminazione … di genere.
La maestra, ogni giorno con il bello o cattivo tempo, arrivava puntuale alle otto meno un quarto. Veniva a piedi o con mezzi di fortuna da Sarzana. Non era molto anziana, ma per la sua abbondante corporatura e per il modo di camminare un po’ strascicato la chiamavamo a zavatona*. Era una buona maestra, severa, ma come poteva non esserlo con trenta energumeni scatenati abituati a vivere in assoluta libertà per buona parte della giornata e pericolosamente. La seconda guerra mondiale era appena finita e gli abbandonati residuati bellici erano la maggior attrazione e causa di gravi incidenti tra i ragazzi.
“Signora maestra Remino c’ha una bomba a mano nella cartella” disse una mattina Maria Rosa la più disinvolta tra le ragazzine.
Remo, detto Remino per la sua conformazione minuta e po’ malaticcia, era un bambino solitario, silenzioso e introverso. Viveva con i nonni materni perché era rimasto orfano del padre, morto o disperso nella campagna di Russia. La madre, che aveva familiarizzato un po’troppo con i soldati tedeschi, finita la guerra, era stata rapata a zero dai partigiani e un po’ per la vergogna un po’ per guadagnarsi da vivere, si era trasferita a Milano in casa di facoltosi conoscenti come cameriera.
“Una bomba? Fermi tutti dove siete che controllo. Remo tu fermo al posto. È vero quello che dice Maria Rosa?” disse preoccupata la maestra.
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