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Salvataggio dei clandestini

 

 

 

Quando salvammo i clandestini

Era Novembre del 1997 ed ero imbarcato sulla nave da ricerca oceanografica. Eravamo nel porto di Ancona e la nostra nave avrebbe dovuto salpare alle 23.00 ma la Capitaneria di Porto ci chiamò per chiederci se potevamo dare la precedenza ad un traghetto diretto in Albania.Era il traghetto che rimpatriava i clandestini provenienti da quel paese. Avevamo visto il traghetto ormeggiato poco distante dalla nostra nave e lo vedemmo quindi passare con il suo carico di disperati.

Circa un’ora dopo salpammo anche noi ed io mi ero attardato a poppa, nonostante il freddo pungente, ad ammirare le luci della città che piano, piano diventavano sempre più piccole; il mare era calmo. I marinai terminata la manovra avevano fermato i verricelli, avevano riposto le gomene di ancoraggio e spento le luci, sulla nave era calato il buio ed il silenzio, rotto soltanto dallo sciabordio delle onde che frangevano lungo la fiancata della nave.

Fu in quel silenzio che percepii, molto flebile, una invocazione di aiuto, non ero certo di aver sentito bene allora chiesi al marinaio che aveva terminato la manovra, “Salvatore non ti sembra di sentire qualcuno che chiama aiuto?”. Tacemmo immediatamente e nel silenzio sentimmo di nuovo l’invocazione d’aiuto. Intanto c’eravamo abituati al buoi e potemmo individuare un piccola luce flebile in mezzo al mare, non molto lontano da noi, forse meno di cento di metri. Era la luce di un salvagente e una indistinta sagoma umana che sbracciava lanciando un’altra invocazione. Immediatamente avvertimmo il ponte di comando con la rituale frase “MANOVER BOARD!” (Uomo a mare!).

Sul ponte scattò immediatamente l’allarme, la nave fu subito illuminata a giorno. Un proiettore dall’alto del ponte di comando cominciò a scandagliare il mare, cercava di individuare il naufrago che chiamava aiuto. Quando il faro intercettò il naufrago scoprimmo che non era solo, erano tre i naufraghi aggrappati a due salvagente. Fortunatamente per loro, uno dei due salvagente aveva la luce rossa, quella che ci ha permesso di individuarli nel buio della notte.

La nave iniziò subito la manovra di avvicinamento mentre i marinai srotolavano la biscaglina lungo la murata della nave. Si era fatta l’una di notte e la temperatura dell’aria e del mare era scesa di parecchi gradi, era novembre e i poveri cristi correvano il rischio dell’ipotermia, che li avrebbe portati a morte sicura. Bisognava fare presto.

Si erano aggrappati alla biscaglina ma non avevano la forza di arrampicarsi. Fortunatamente erano a babordo, sul lato sinistro della nave, dove c’era la scala reale, che fu subito ammainata sino al pelo dell’acqua. Un marinaio, sulla piattaforma della scala, con il mezzo marinaio (un’asta con in cima un uncino) agganciò il primo naufrago e lo trasse sulla piattaforma dove un altro marinaio lo sorreggeva e l’aiutava a salire la rampa di scale, poi con la stessa manovra trasse il secondo; il terzo non ne voleva saperne di mollare la corda della biscaglina, aveva serrato i pugni in una presa ferrea.

Il marinaio, con il rischio di cadere in mare lui stesso, si sporse per aprigli le mani con tutta la sua forza ma senza riuscirci. Decisero allora di calare la giapponese(una rete a maglie larghe) con l’intento di avvolgerlo e issarlo a bordo con la mancina. Così fecero e così fu che lo trassero a bordo.

I poveri naufraghi una volta a bordo e in salvo furono portati immediatamente in infermeria dove li spogliarono degli abiti fradici e freddi, li misero sotto la doccia calda e poi a letto sotto uno strato di coperte. Nonostante fossero sotto le coperte continuavano a tremare dal freddo. Un giovane cadetto scozzese stette tutto il tempo accanto al più giovane nell’intento di aumentare, con il proprio corpo il calore. Gli parlava continuamente per evitare che si addormentasse, gli diceva frasi di conforto e di incoraggiamento; parole, che forse, il giovane naufrago neanche capiva. Ci vollero più di due ore prima che si stabilizzassero. Dai documenti che avevano con loro i tre naufraghi furono identificati, erano albanesi ed erano giovanissimi il più vecchio dei tre aveva ventidue anni, gli altri due, diciotto e diciassette anni. Nei loro portafogli furono trovate valute di varie nazionalità, quelle più preziose, dollari, marchi e sterline. Questi soldi forse erano il rimanente delle somma che avevano pagato per espatriare clandestinamente e forse, per comprarsi un futuro migliore.

Intanto la nave aveva invertito la rotta per ritornare ad Ancona dove, allertate le autorità locali, avevano apprestato tre ambulanze che avrebbero portato i tre poveri ragazzi all’ospedale.

In quegli anni ci fu una grande ondata di sbarchi clandestini dall’Albania e i tre naufraghi erano clandestini forzatamente imbarcati sul traghetto per essere rimpatriati. Disperati per la fine del loro viaggio della speranza si erano gettati in mare con l’intento di sottrarsi al rimpatrio forzato e sperando di raggiungere di nuovo a nuoto la costa italiana. Una idea folle perché eravamo distanti dalla costa, più di due miglia e con il freddo non sarebbero sopravvissuti un’altra ora. Il caso ha voluto che noi partissimo dopo di loro, era l’ultima nave che lasciava il porto di Ancona quella notte. Se fossimo partiti prima del loro traghetto sarebbero certamente morti assiderati.

Naturalmente non sapemmo mai a che destino erano andati incontro. A me rimase la convinzione che se avevano compiuto un atto così temerario lo avevano fatto con la consapevolezza della disperazione, per la ricerca di un futuro migliore. Speriamo che l’abbiano trovato in qualche altro modo.

Da questa esperienza, vissuta in prima persona e in diretta, ho capito che prima di giudicare occorre conoscere la disperazione degli altri ed avere rispetto per quelli come loro, che per avere un futuro migliore sono disposti a sacrificare anche la propria vita.

Andrea Cavanna

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